Labubu, il mostriciattolo teneramente inquietante che ha conquistato il cuore (e l’immaginazione) di migliaia di appassionati, è solo uno dei tanti protagonisti del fenomeno “cute but creepy”. Questo trend, che unisce l’estetica kawaii alla sottile inquietudine del misterioso, affonda le radici nella psicologia e nella neuroscienza, e oggi è più popolare che mai. Ma perché siamo così irresistibilmente attratti da questi personaggi ambigui, dolci ma un po’ spaventosi? La scienza ha qualcosa da dirci.
Perché ci affascina l’ambiguità
Labubu incarna perfettamente l’ambivalenza estetica: un mix fra pupazzo peloso e creatura delle tenebre, con il suo sorrisetto strano e gli occhioni da cartone animato. Il nostro cervello ama – e teme – ciò che è familiare ma non del tutto decifrabile. Questa “dissonanza cognitiva” genera un picco di attenzione: vogliamo capire meglio ciò che non riusciamo a classificare immediatamente.
Secondo i ricercatori, l’ambiguità visiva stimola tre aree cerebrali chiave:
- L’amigdala, che elabora emozioni come la paura e l’eccitazione
- La corteccia prefrontale, responsabile del pensiero complesso e analitico
- Il sistema di ricompensa, che rilascia dopamina in risposta alla novità
Il risultato? Una miscela potente di curiosità e coinvolgimento emotivo. In pratica, ci piace essere leggermente confusi se l’esperienza è visivamente stimolante e ci fa sentire sicuri.
L’attrazione perturbante che non ci lascia andare
Il concetto di “valle perturbante” — introdotto dallo scienziato giapponese Masahiro Mori — descrive il disagio che proviamo davanti a figure troppo simili agli esseri umani, ma non completamente umane. Eppure, nel caso di Labubu, si parla sempre più spesso di “uncanny attraction”: non ci allontaniamo, anzi ci avviciniamo. La combinazione di tratti adorabili (come il pelo morbido) e dettagli sinistri (come i denti aguzzi o le proporzioni strane) ci affascina invece di respingerci.
Questi personaggi ci offrono ciò che la sociologa Margee Kerr chiama “paura sicura”: uno spavento controllato e divertente, che attiva l’adrenalina senza farci sentire realmente in pericolo. Il brivido visivo è simile a quello che proviamo con gli horror o le case stregate, ma con il filtro rassicurante della dolcezza.
Perché Labubu funziona: i tre segreti psicologici
La febbre per Labubu e i suoi simili non è solo moda, ma il risultato di un mix psicologico particolarmente potente. Ecco i tre ingredienti che lo rendono irresistibile:
- Ambivalenza emotiva: ci fa provare emozioni opposte nello stesso momento, mantenendoci emotivamente coinvolti
- Gestione della paura: ci permette di sperimentare il brivido in maniera controllata, aumentando la sensazione di divertimento
- Design originale ma riconoscibile: stimola il sistema di ricompensa cerebrale grazie alla giusta dose di novità
In breve, Labubu è un piccolo capolavoro del design delle emozioni.
Tra kawaii e yōkai: le radici profonde del creepy carino
Non è un caso che molti di questi personaggi nascano in Giappone. La cultura nipponica ha da sempre un talento nell’unire l’adorabile (kawaii) al misterioso (yōkai). Questo mix culturale offre gli strumenti perfetti per giocare con l’ambiguità, trasformando la paura in estetica e la stranezza in fascino. È proprio da questo immaginario che emergono eroi “dolcemente disturbanti”, capaci di emozionare adulti e bambini.
Un trend in evoluzione
Il “cute but creepy” non è solo una moda passeggera. Secondo studiosi e osservatori di cultura visiva, è una vera e propria tendenza che sta contaminando arte, design, moda, fumetti e media digitali. Il suo successo si basa su un’esigenza molto umana: accogliere, giocare e trasformare le emozioni complesse in esperienze visive sicure e creative.
Riflessi di noi stessi
Forse il segreto più profondo di Labubu è che ci somiglia. È impreciso, imperfetto, dolce e un po’ inquietante. Proprio come noi. In un mondo in cui tutto tende alla perfezione, personaggi come lui ci ricordano il valore dell’ambiguità, della stranezza e dell’autenticità emotiva. Ed è per questo che continueranno a popolare le nostre collezioni, i nostri schermi e, in fondo, anche il nostro immaginario.
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